Partiamo da una constatazione: quelli di The Chinese Room si occupano di walking simulator, una tipologia di gioco che loro stessi hanno contribuito a ridefinire in chiave moderna fin dai tempi di Dear Esther (quando ancora era una mod per Half-Life 2). Trattare Still Wakes the Deep come se fosse qualcosa di diverso ed estraneo al suo genere di appartenenza - cosa fatta nella recensione del principale sito italiano di videogiochi - è non solo miope e scorretto ma anche disonesto dal punto di vista intellettuale. Preso atto dell'identità del gioco, non nascondo certo rammarico nel riscontrare un'involuzione rispetto al magistrale Everybody's Gone to the Rapture. Era il 2016 e prendeva quanto fino a quel momento fatto dal walking sim per scardinarlo e sovvertirlo fin dalle basi, aprendosi alla libera esplorazione di una enorme mappa che diventava parco giochi dell'osservazione, puro senso di meraviglia per la scoperta delle tante suggestioni racchiuse in quella piccola cittadina nella campagna inglese degli anni ottanta. Oggi, nel 2024, nulla di tutto questo; si torna al percorso obbligato e alla linearità assoluta che porta dal punto A al punto B, senza la benché minima deviazione che del resto sarebbe disincentivata dalla completa mancanza di collezionabili o altro materiale utile a premiare l'esplorazione. Pazienza. Dove il gioco eccelle è nell'evocativa bellezza dell'ambientazione, una piattaforma petrolifera collocata nel mezzo dell'oceano, setting perfetto per costruire una densa atmosfera impregnata dall'immaginario orrorifico a metà fra il Carpenter de La Cosa e lo Yuzna di Society (oltre agli immancabili echi lovecraftiani). Puro body-horror contaminato dagli aspetti action e survivalisti che ci si aspetterebbe da produzioni di questo tipo, mentre sullo sfondo delle avversità affrontate dal protagonista scorre una vicenda personale forse non particolarmente originale ma coerente ed efficace nel determinare la chiusura del cerchio narrativo. Nota di merito ai mostri, meravigliosi ammassi di carne in movimento, e alla cura riposta in molteplici dettagli e particolari che - come da tradizione dello sviluppatore - deliziano lo sguardo di chi sa vedere.

Ok, questo tie-in è ATROCE. Tutto sbagliato, dal level-design sconclusionato (scorrimento bidimensionale multilivello in ambienti 3D) al posizionamento degli avversari nei posti più ridicoli, fino al sistema di collisione dalla fisicità non pervenuta (idem per la reattività della croce direzionale: saltare e tirare un calcio a un oggetto volante è piacevole quanto cadere di culo su un obelisco di marmo). Cosa aggiungere.. stage con richieste a tempo oltre ogni tedio e frustrazione (sconfiggere tutti i 20-30 nemici e/o liberare altrettanti ostaggi disseminati in mappe? Buon divertimento.) e gestione del game over in stile "oggi hai cucinato proprio bene, quello col riso era pollo?" "no, era il tuo cane" (non ci sono checkpoint e se si muore o si esaurisce il tempo bisogna ricominciare il livello da zero). Immaginate la scena.. dopo venti minuti di andirivieni, siete alla ricerca dell'ultimo ostaggio/dispositivo. Oscillando con la ragnatela, colpite un robot volante (ovviamente impossibile da vedere, considerata la ristrettezza dell'area di gioco unita alla sconsiderata velocità di movimento) che vi sbalza in acqua e.. GAME OVER con ritorno alla selezione capitoli. Ancora: grafica agghiacciante (salvabili però le animazioni di Spidey), boss fight di una bruttezza più unica che rara, musiche inascoltabili (quel fischietto, mioddio!) e la storia neppure segue la trama del film, limitandosi a replicare - beh, più o meno - una manciata di sparute sequenze. Inutile dire che lo schermo touch del DS è del tutto superfluo, delegato alla sola selezione del potere in uso (che poi, poteri.. quelli realmente utili ed efficaci si contano sulle dita di mezza mano). Un completo fallimento che disattende ogni barlume di divertimento, l'unica nota positiva è data dal setting cittadino (sempre con un suo perchè), da alcuni sfondi che infondono un tono metropolitano a questa tremebonda avventura dell'arrampicamuri. Non male anche i due filmati in CGI che aprono e chiudono il gioco (le sequenze statiche in compenso fanno da cacare a spruzzo). Mezza stellina in più perchè l'agonia data dal giocarlo è durata relativamente poco, solo una quindicina di capitoli.

Il primo Kona si era fatto notare per la nevosa ambientazione canadese a base di Wendigo e presenze oscure, il secondo prosegue su quella linea aprendosi in termini di mappa ma perdendo il fascino che caratterizzava la cittadina di South Atamipek. Non è forse un caso se le migliori suggestioni siano da ricercare all'interno di spazi chiusi e ben delimitati (la magione di Hamilton o il laboratorio sotterraneo), sono però attimi fuggenti all'interno di un andirivieni in ampie zone vuote e graficamente anonime, oltre che prive della capacità di ritornare una sensazione di reale solitudine. Il freddo brumoso che avvolge e ammanta di bianco le ampie distese non filtra dallo schermo, restando cristallizzato in un'idea di atmosfera irrisolta (anche a causa della realizzazione tecnica ben al di sotto di ogni livello di guardia). Non irricevibile ma quantomeno deludente.

Insieme a Spider-Man 2 è stato il primo gioco commercializzato per Nintendo DS (con il titolo Feel the Magic XY/XX), anticipatore della prima mandata di titoli presenti al lancio nordamericano della console (21 novembre, una decina di giorni prima della release giapponese). Semplice raccolta di minigiochi a tema demenziale, tenuti insieme - nei limiti della follia nipponica made in Sonic Team - da una storiella sentimental-maliziosa oggi a forte rischio impresentabilità (e si fa volere bene anche per questo): il protagonista si innamora follemente di una tizia incrociata per strada e farà letteralmente di tutto per conquistarla con l'aiuto dei Rub Rabbits (inutile dire che lei è relegata al ruolo di preda sciocchina e ansimante). Una reliquia d'altri tempi che ha il pregio di divertire con l'assurdità delle situazioni, in un crescendo paradossale che sfrutta in modo abbastanza creativo le varie funzionalità innovative di doppio schermo+touch e del sempre bistrattato microfono. Ovviamente molto discontinuo come è inevitabile per la formula contenitore, votato al disimpegno sfrenato, talvolta un po' tedioso (a forza di strisciare il touch, lo stage del formicaleone mi ha fatto aumentare la massa muscolare dell'adduttore del pollice), non propriamente rilassante però ancora oggi piuttosto originale per la sua vena eccentrica. Tra l'altro invecchiato decorosamente, grazie al fondamentale contributo dello stile grafico fatto di silhouette con elementi colorati e simpatiche animazioni che si lasciano guardare volentieri.

Ho ripensato al voto incassato da Edge: 6. Nell'argomentare quella valutazione, il recensore sosteneva che l'atmosfera di gioco regge bene nelle primissime ore ma - andando avanti e allontandosi dalla zona di partenza - le meccaniche finiscono col rivelare tutti i loro limiti di ridondanza e ripetitività, smettendo di sorprendere e tantomeno farci preoccupare per la nostra incolumità (gran parte della recensione poggia sulla percezione del senso di pericolo che appunto il gioco vanifica nonostante le buone premesse). Non sono considerazioni sbagliate, tuttavia quanto vanno ad inficiare sulla godibilità complessiva della ventina di ore (oltre a un altro paio del dlc) necessarie a completarlo in ogni sua parte? Secondo me molto poco, praticamente nulla. Perchè il bello di Dredge non si consuma nei semplici requisiti delle missioni principali e tantomeno nella manciata di secondarie, bensì nella capacità di renderci un tutt'uno con un veicolo e il suo ambiente d'uso. Semplicemente: non stanca mai. Raccontando tra l'altro una storia forse scontata ma affascinante, fatta di personaggi imperscrutabili e orrori ancestrali che attendono negli abissi delle profondità. E' la caratteristica vincente di un gioco che si inserisce in meccaniche imbastite sul fare e rifare e poi rifare ancora, quindi inevitabilmente soggette a elementi basici ma ben incastonati fra loro. Sapendo tra l'altro quando giungere a conclusione senza ammorbare con il doppio o triplo della sua durata. Una lezione di game design che andrebbe appresa, assimilata, replicata.

Quale ruolo abbiamo, noi videogiocatori, all’interno di quel viscerale viaggio nella psiche frammentata di Senua? Osservatori attivi, testimoni delle tensioni allucinatorie, marionettisti partecipi di azioni e reazioni, forse solo una ulteriore estensione della malattia mentale che opprime l'esistenza della protagonista (pur accogliendola come inscindibile parte di sé). C'è un profondo legame sul quale è fondato il coinvolgimento emotivo, in cui - molto più che nel primo gioco - la scansione ritmica della vicenda assume valenza da sinfonia funebre, trovando nel proprio sepolcro una forma di rinascita fatta di nuova consapevolezza. In fondo, Hellblade 2 racconta l'oggi; il post-verità nel quale realtà e finzione (indotta, talvolta voluta, spesso fortemente ricercata come affermazione delle proprie paure) diventano un tutt'uno con la nostra quotidianità. Allora la salvezza è rappresentata non dall'individualismo chiuso nella sua bolla percettiva, bensì dallo scambio collettivo di informazioni. Dalla pluralità di voci, non solo quelle che rimbombano nella nostra testa cercando di incapsularci nelle nostre apparenti certezze. E quindi, perchè non vederci anche una chiara metafora sulla gabbia mediatica contemporanea con i social a rappresentare delle piccole comunità conoscitive dalle quali diventa sempre più difficile uscire? Nel primo gioco, Senua dialoga solo con se stessa e con voci che assumono atteggiamenti sia affermativi che negativi in base alle condizioni esterne, che in fondo è la chiusura di chi si ritrova in sfere comunicative delimitate da una comune considerazione su cosa sia l'informazione del reale; vedi novax o complottisti vari che si alimentano delle loro reciproche paure dentro a recinti ben definiti quali possono essere gruppi Telegram o pagine Facebook. Ma, come insegna Hellblade 2, l'apertura verso una possibilità di cambiamento passa attraverso dialogo e comprensione con esperienze diametralmente opposte che - tramite il confronto - si aprono a un ventaglio di nuove opportunità. Quelle che poi portano Senua ad avere una visione diversa del reale e, come lei, i suoi compagni di avventura. Non a caso il primo fondamentale incontro è rappresentato da un suo avversario, un nemico da abbattere, un antagonista con il quale non dovrebbe avere niente con cui spartire a livello ideologico. Senua apprenderà invece che la conoscenza apre a nuovi simboli, nuovi mondi, nuove interpretazioni e nuove pacificazioni. Probabilmente è una sovrastruttura vuota e superflua ma il fatto che il gioco mi abbia portato a determinate conclusioni, dovrà pur significare qualcosa.

Rispetto al primo mi è sembrato penalizzato dalla strabordante voglia di allungare a dismisura la componente più debole dei casi, quella prettamente investigativa, qui resa ulteriormente ridondante nonché afflitta da un cast di contorno non all'altezza delle aspettative. Inoltre viene talvolta a pesare l'assoluta rigidità del sistema di progressione; in diverse occasioni mi sono ritrovato bloccato in un punto morto perchè ho mancato quell'infinitesimale dettaglio che consente alla storia di azionare l'evento successivo, nonostante fossi già ampiamente giunto alle conclusioni che in linea teorica avrebbero dovuto innescare il ricambio della sequenza narrativa. Faccio un esempio: a un certo punto sollevi un'obiezione mostrando la prova che smentisce la tesi del testimone.. e viene considerato un errore perchè prima andrebbe selezionato il profilo di un determinato personaggio che porta avanti il dialogo e solo
successivamente è lecito mostrare la prova determinante. Alla base del ragionamento sussiste non la deduzione logica bensì la programmazione del codice perchè così è stato pensato e così deve essere fatto. Del resto questo è il genere di riferimento (più visual novel che adventure) e inoltre parliamo di un titolo del 2006, inutile ricercare lo svecchiamento di determinate dinamiche. Il secondo episodio si riprende egregiamente nelle fasi processuali, al solito tutte da ridere per le assurde situazioni con le quali si vanno a smontare le tesi dell'accusa. I singoli casi restano in ogni caso abbastanza scarsi se raffrontati a quelli del primo, manca un fil rouge che lega l'insieme in un'unica vicenda appassionante e almeno due casi su quattro sono davvero troppo, troppo lunghi.. l'ultimo soprattutto accusa non poca stanchezza nonostante il brillante plot-twist collocato a circa 2/3 che - nel finale - assume una divertente considerazione meta che parla al giocatore in misura maggiore di quanto faccia col protagonista.

Arena, open map, arena, open map, arena.. la diligente competenza nel pensare un combat system veloce e dinamico (ma anche macchinoso e programmatico, uguale a se stesso dall'inizio alla fine), non compensa la struttura divisa - indecisa? - fra l'essere un'esperienza single-player lineare e un looter shooter con poco loot e ancor meno libertà di movimento. Non aiutano i modelli bruttini, le caratterizzazioni risibili (salvabile solo il cattivone di turno) e quel generale senso di estetica derivativa da fantasy sci-fi come se ne sono già visti fin troppi. Un tempo sarebbe stato un perfetto esempio di gioco da cestone del discount e, in questi termini, avrebbe avuto diversi motivi di interesse (non ultimo la consapevolezza di durare il giusto, vista anche la scarsità estrema di varietà nelle ambientazioni). Dubito però che queste fossero le intenzioni di Ascendant e EA.

Avventura walking sim abbastanza breve (per la millata siamo sulle tre ore scarse) ma il team è quello di Gone Home e quindi non mi aspettavo nulla di diverso. Il setting - siamo nel 2003 - gli infonde un tono peculiare perchè è un periodo storico poco affrontato nei videogiochi (tolto il contemporaneo si prediligono gli anni 80/90 per ovvi motivi di connotazione estetica e di appeal nostalgico) ed è un peccato; i primi duemila sono l'epoca dei miei vent'anni e ritrovare quel senso di confine tra la fine dell'analogico e il sopravvento del digitale.. è stato curioso e apprezzabile, anche se poco approfondito data l'esiguità di ambientazioni e opportunità per parlare di quel mondo che non esiste più.
Storia abbastanza scontata, nel passaggio finale avrebbe potuto citare uno dei più grandi film romantici di sempre ma preferisce rifugiarsi nella banalità di un plot twist del quale perfino alle due protagoniste non sembra interessare granché. Per il resto, è una produzione Annapurna e lo si vede dallo stile che in questo caso integra ambienti in prima
persona a personaggi bidimensionali animati in stile cartoon, devo dire molto gradevole.

Spartiacque che fonda un archetipo e punto di non ritorno, di quelli che all'interno di un sottogenere - o di una intera tipologia del videogioco - in altri tempi ne sarebbero usciti a getto costante mentre oggi è un lusso trovarne 1-2 ogni sette o otto anni. La profondità di scrittura dei personaggi, con le loro caratterizzazioni che si sviluppano in modo del tutto coerente, senza una minima sbavatura, a volte esprimendosi con una singola linea di dialogo o un'espressione del volto. Non solo nostri compagni del gruppo ma amici.. perchè quello diventano quando si finisce con l'affezionarcisi. E poi gli altri personaggi non giocanti con i quali scambiamo numerose interazioni; sono dozzine e ognuno ha una sua personalità o caratteristica distintiva. I tiefling li ho salvati tutti perchè a perderne anche solo uno non me lo sarei perdonato. Il senso del viaggio con la sua epica e assoluta credibilità nella gestione delle conseguenze, dove anche quelle apparentemente più improbabili o contrastanti trovano sempre una dimensione e collocazione naturale ai loro pregressi. Ho amato ogni istante di Baldur's Gate 3 e di difetti non ne saprei proprio trovarne. Neppure in alcuni scontri che mi sono sembrati parecchio sbilanciati, perchè sono sicuro che se li provassi con altri personaggi o usando altre combinazioni di attacco.. anche quelli si rivelerebbero strepitosi. O l'avvio del terzo atto che sembra un'involuzione e invece nel suo essere diverso dagli altri trova l'eccezionalità del proporre qualcosa di costantemente nuovo, senza mai ripetersi (a me ha ha ricordato alcuni librigame ai quali sono incredibilmente affezionato come "La città proibita" di Oberon o "La città dei misteri" di Sortilegio; atmosfere nelle quali mi sono pienamente immerso con puro gaudio). Ci sono tanti momenti, commoventi o ilari, tensivi o quieti, che mi hanno fatto capire quanto ormai fossi personalmente coinvolto nelle vicende di questi personaggi. E ho adorato come nella chiusura tutto vada al suo posto, senza lasciare nulla in sospeso. E' la gratificazione più grande che questo capolavoro avrebbe potuto darmi.

Finito nei termini in cui si potrebbe considerare finito un sandbox totale, considerando che la vicenda principale (riportare il gatto a casa sua, in cima a un edificio) è un mero pretesto per svolgere decine di piccole missioni all'interno di un classico quartierino giapponese. Lo si potrebbe prendere come una sorta di b-side di Stray, se non fosse che non c'è nulla di quella cura produttiva. I requisiti di completamento poggiano interamente su richieste molto basiche e dubito che il viaggio valga il prezzo in termini di tempo, anche se soddisfare la curiosità di essere un gatto che si comporta come tale, ammettiamolo.. potrebbe essere inizialmente simpatico.

Devo dire che non mi ha particolarmente sconfinferato la scelta di porre drastica enfasi sulle sessioni di corsa e arrampicata su parti/piattaforme; una routine alla lunga sfiancante. Inoltre le fasi di libera esplorazione prevedono pochissimi enigmi e le parti più spettacolari - ce ne sono giusto un paio - si risolvono in una serie di salti scriptati con quell'effetto di finzione che riempie gli occhi ma non lascia nulla. Cose già viste e straviste, messe in punti nei quali te le aspetti. E quindi si dimenticano subito. Forse la mancanza più grande è proprio quella di non riuscire a sorprendere, mai, quando quantomeno il primo lo ricordo più centrato nella rappresentazione sia dei mondi che di storia e personaggi. Qui ci sono solo due pianeti in croce e altre tre o quattro zone limitate però a poche sequenze ultralineari e - anche se andando avanti nel tempo si aprono nuove aree - questa mancanza di varietà va a pesare come un macigno sulla godibilità e aspettativa (inesorabilmente tradita) nei confronti di un gioco su licenza Star Wars. Voglio dire.. c'è una intera galassia da esplorare e finiamo SEMPRE sul solito pianeta desertico e su quello boscoso? E' così anche nei film però, dico io.. inventatevi qualcosa di originale! Tra l'altro, verso la fine parte un lungo capitolo assolutamente anticlimatico nel modo in cui spezza la narrazione e - quel che è peggio - la boss fight che lo conclude dovrebbe essere la più epica del gioco nella sua interezza e invece è semplicemente orrenda; fasi gestite malissimo con terribili pattern di attacco. Resta comunque un gioco ampiamente potabile, un more of the same che poco aggiunge e nulla toglie.

Rigiocarlo oggi.. che blast from the past! Le sezioni in stile rail shooter simil-Lethal Enforcers o Mad Dog McCree sono quelle di gran lunga invecchiate meglio; schermate fisse nelle quali entrano le digitalizzazioni dei nemici e ovviamente scordiamoci reazioni contestuali perchè bisogna colpirli all'interno del quadretto a livello torace che funge da hitting point. Però interagire non con pixel e poligoni ma con questi personaggi veri e realistici, ha ancora oggi un suo perchè. Male invece le numerose sezioni in movimento, non tanto quelle collocato nello spazio; una versione dozzinale della serie X-Wing ai limiti del giocabile, fermo restando che si ripresenta lo stesso problema della limitata finestra di attacco con l'aggravante delle astronavi che si muovono e il cursore-mirino per niente preciso e reattivo. No, il problema è quando devi muoverti evitando gli ostacoli e allo stesso tempo colpire gli obiettivi, delegando il tutto a un singolo
analogico. E' un'agonia perchè lo sfondo agisce in base al filmato prerenderizzato e quindi va per i fatti suoi, collocandoti però al suo interno e rendendo ostico intuire il movimento al fine di evitare gli ostacoli lungo il percorso. Bisogna imparare il livello a memoria, ricordando la direzione in cui spostarsi in quel determinato; non esattamente una questione di prontezza o intuito o riflessi, praticamente un laser-game senza gli avvisi grafici. Fortunatamente la nuova versione ha la possibilità di salvare ovunque, cosa che inevitabilmente trivializza la difficoltà - non bene, visto che il gioco si finisce nel giro di due o tre ore - ma caspita.. certe meccaniche potevano sembrare divertenti solo nel 1995, quando dovevano venderti le nuove prodezze grafiche del supporto CD.

Un altro di quelli che non stancano mai, anche se alla lunga - dopo avere preso dimestichezza con i vari livelli - diventa tutto un po' troppo semplice. Storia apparentemente imperscrutabile ma con un suo significato che si fa apprezzare (nulla di sconvolgente, btw).

Beh, beh.. Diablo non è mai stato una mia fissa ma le sue campagne narrative le gioco sempre volentieri e quella del quarto non ha fatto eccezione. Non che sia una storia particolarmente interessante ma è tutto ciò che mi aspetterei da Diablo e in questo non fa niente di sbagliato. Classico gameplay agile e alla portata di chiunque, semplicistico ma ugualmente divertente e mai noioso.